La reazione passiva di fronte alla malattia

Visione confusa

«Stamattina ho ricevuto una telefonata dallo studio medico in cui qualche settimana fa ho eseguito degli esami di routine… dicono che il Dottore vuole parlarmi. Ora sono nella sala d’attesa del suo studio. Aspetto che mi chiami e mi sento come anestetizzato. Temo mi dica qualcosa che non mi piacerà. Appena ho chiuso la chiamata ho sentito le forze venirmi meno, ho messo in pausa il mio cuore e un nodo ha iniziato a premere sulla cima dello stomaco. Eppure fino a poco prima ero in piena attività, mille cose da fare, tante da non saper come farle stare dentro una stessa giornata».

L’identità di malato

Una situazione del genere, che molti di noi possono vivere in prima persona o attraverso l’esperienza di qualche familiare o amico, è spesso il primo passo di un percorso costellato di paure. Paura che il medico ci dica che abbiamo un problema di salute da affrontare, paura che questo cambi in peggio la nostra vita, paura che possa minacciarla. Se poi la brutta notizia arriva davvero, si perdono d’un tratto i riferimenti abituali: tutto è messo in forse, l’idea di noi stessi, del nostro ruolo nella famiglia, nel lavoro, nella società, i nostri progetti, tutto ciò che richiede un futuro “certo”. Il nostro mondo viene ricoperto da un velo di grigio, i colori non sono più vivi come prima e iniziamo a vedere le persone intorno a noi sempre più lontane, come appartenenti a un’altra dimensione più fortunata della nostra: quella delle persone “sane”.

«Ero una persona con tanti sogni, un genitore, un professionista, un figlio, un amico ma adesso sono innanzitutto un malato. Sono entrato in una stanza nella quale non posso più concedermi di ridere, scherzare, amare, divertirmi, avere progetti. La mia vita resta momentaneamente sospesa dentro una bolla, la metto da parte come se non mi ci volessi attaccare troppo, nel caso poi dovessi rinunciarvi. E tutto questo fino a quando non sarò completamente guarito: solo allora potrò riprendere a vivere, perché, per adesso, riesco a pensare solo alla malattia e alle sue nefaste conseguenze».

Anche la nostra vita con gli altri subisce dei cambiamenti. Siamo ipersensibili ad ogni variazione di tono e ad ogni parola usata con cui il medico ci informa sul nostro stato e, una volta che la malattia è stata comunicata, notiamo se quando ci uniamo ai colleghi si crea un silenzio imbarazzato, se i loro sguardi vagano lontano o se parlano di noi sottovoce. Verifichiamo se amici e conoscenti tendono a cercare la nostra compagnia meno di prima o se ci trattano in modo diverso rispetto a quando eravamo “sani”. «Provano pena per me perché pensano che sia condannato? Non reggono la mia presenza perché gli ricordo che la vita può effettivamente prenderti di sorpresa? O hanno la sensazione che io sia contagioso?».

Quando ci viene comunicato che abbiamo una malattia importante, è comprensibile passare attraverso una fase di timore verso il futuro e di lutto rispetto a un’idea di noi che c’è più: non ci percepiamo più eterni ed invincibili come prima, e anche se questa convinzione era solo un’illusione, per noi era l’unica e vera realtà che ora si è infranta.

Cosa ci mantiene nell’identità di “malato”?

Sicuramente la convinzione che possiamo fare ben poco di nostro per ritornare in salute. Consideriamo la malattia qualcosa che semplicemente “accade”, un cattivo scherzo del destino fuori dal nostro controllo e al quale non riusciamo a dare un significato.

Sentiamo che il nostro corpo ci ha tradito, che dentro di lui esiste qualcosa di minaccioso e dunque ce ne sentiamo separati, ci sentiamo soli nella battaglia contro una parte di noi stessi.

Inoltre siamo abituati ad avere una visione dicotomica della salute in base alla quale “o siamo sani” cioè perfetti, “o siamo malati”, ovvero abbiamo una macchia indelebile che ci fa dimenticare che magari è solo una parte del nostro corpo ad avere un problema, ma il resto di noi sta bene.

Il corpo come unico attore

Siamo poi convinti, in base al modello di pensiero della medicina moderna, con il quale conviviamo da più di due secoli, che qualunque problema fisico nasca dal corpo stesso senza una ragione e che possa essere risolto unicamente mediante un trattamento fisico. L’intervento medico infatti ha l’obiettivo di alleviare il sintomo con i rimedi farmacologici e con gli strumenti della radioterapia e della chirurgia, i quali, indipendentemente dalla loro efficacia, agiscono a valle e non alla radice del problema. Riguardo le cause delle patologie, normalmente si identificano su base statistica una serie di fattori di carattere ambientale (la presenza di fattori inquinanti) o di stile di vita personale (fumo, alimentazione, attività fisica, ecc.) che abbiano potuto favorire lo sviluppo della malattia ma non viene realizzata una ricerca dettagliata sulla catena causale che l’abbia prodotta in ogni specifica persona. Questo lavoro, infatti, sarebbe possibile solo ampliando la visione dell’individuo, al fine di includere in modo sistematico nella valutazione diagnostica anche il suo vissuto emotivo e psichico, oltre al suo corpo.

Il ruolo passivo

Dal momento che crediamo di non disporre di alcun potere di intervento sul nostro corpo, in quanto gli organi smettono di funzionare a dovere, le cellule “impazziscono” o i microrganismi ci aggrediscono indipendentemente dalla nostra volontà, ci affidiamo a un esperto che capisca per noi cosa sta succedendo nel nostro corpo. Gli chiediamo anche di proporci le cure che ritiene più adatte al nostro caso, essendo così convinti di aver fatto tutto ciò che era in nostro potere per tutelare la nostra salute.

Il ragionamento chiave è questo: se il problema è causato da una fattore “esterno” a me, nel senso che io non ho alcun ruolo, alcuna implicazione nel suo prodursi, anche la soluzione dovrà venire non da dentro di me ma dal di fuori.

Pensiamo di conseguenza che la nostra responsabilità sia circoscritta alla ricerca del medico e al rispetto delle sue prescrizioni, anche se spesso non abbiamo capito esattamente che cosa stia succedendo nei nostri organi, nei nostri tessuti né quale sia la reale minaccia insita nella diagnosi. Spesso ci sottoponiamo alle cure senza conoscerne i reali benefici attesi né i rischi derivanti dall’eventuale tossicità dei trattamenti. In breve, nella gestione della nostra salute assumiamo un ruolo passivo.

I circoli viziosi delle paure

Avendo lasciato ad altri il timone della situazione, sarà difficile riuscire a separarsi da una serie di paure che non ci danno tregua. Se non capiamo cosa succede nel nostro corpo, staremo sicuramente in ansia e cercheremo di riempire questo vuoto di informazioni: faremo ulteriori domande al medico e, qualora questo non fosse sufficiente perché mancano ancora dati o perché questi ha usato un linguaggio difficile da comprendere, cercheremo di carpire altre notizie su casi simili al nostro, da familiari e conoscenti oppure su Internet, dove il filtro percettivo della preoccupazione porterà in primo piano le informazioni più nefaste, aumentando ulteriormente la nostra angoscia.

Crediamo inoltre che le informazioni sull’evoluzione e sulla speranza di vita associate alla nostra malattia siano reali, ovvero che possano essere applicate al nostro caso, dimenticando che questi dati statistici sono di norma delle medie tra le situazioni più diverse (dal peggioramento alla regressione di malattia) derivanti da studi fatti su un campione di pazienti che non ha niente a che vedere con noi.

Possiamo fare lo stesso discorso riguardo le terapie che ci vengono proposte, spesso come unica soluzione al nostro male. In mancanza di informazioni adeguate su benefici ed effetti collaterali attesi delle cure, non siamo in grado di scegliere la terapia più adatta a noi. A volte le persone sono così intimidite di fronte al medico, che non osano chiedere chiarimenti («ho paura di sembrare stupido, di fargli perdere tempo, di metterlo di malumore…»), il che le porta a lasciare spesso il suo studio in uno stato di confusione e con la sensazione di vuoto e solitudine di fronte alla strada che dovranno percorrere. Una strada che qualcun altro sta scegliendo per loro perché esse non si sentono in grado di prendere con convinzione delle decisioni sulla loro salute.

Con questo sistema di credenze e comportamenti è quasi scontato assumere il ruolo di vittima delle circostanze e di incamminarsi verso un tunnel in cui la malattia rappresenti l’unico paesaggio possibile, allontanando noi e il nostro corpo dall’energia della vita. E se guardiamo costantemente alla malattia, inconsciamente adottiamo degli atteggiamenti e creiamo un circolo vizioso di rassegnazione-paura-somatizzazione che concorrono a trasformare in realtà le nostre aspettative negative. E il problema è che pensiamo di non avere scelta, che questo sia l’unico modo di vedere le cose, opinione che oltretutto ci viene rafforzata dalla comunicazione dei media (per es. sul fatto che l’unica speranza sia data dalla ricerca che ancora non ha però prodotto il medicinale risolutivo) e dalle persone che ci circondano, le quali formano ai nostri occhi la convinzione collettiva sul nostro male.

Gli studi confermano che una serie di aspettative negative circa il decorso della malattia, rinforzata da un atteggiamento passivo e un allontanamento dalla vita e dai suoi progetti, formano dei circoli viziosi tra psiche e corpo suscettibili di peggiorare in modo considerevole le possibilità di ritorno alla salute.

Una nuova prospettiva

In realtà i processi di malattia e guarigione possono essere visti da una prospettiva completamente diversa rispetto a quella descritta finora, condivisa da una parte poco conosciuta della medicina ma non per questo meno importante, in base alla quale ognuno di noi ha un ruolo fondamentale in tutto ciò che gli succede, incluso il nostro stato di salute. Questa prospettiva è rappresentata dall’approccio psicosomatico, per il quale i nostri vissuti psichici ed emotivi si riflettono sul nostro corpo, dando luogo ai processi patologici così come a quelli di guarigione.

Arriviamo in tal modo a una visione dinamica della salute, nella quale non sono “o sano o malato”, ma posso stare un po’ meglio o un po’ meno bene, come risultato di quel che sto vivendo e del modo in cui vi sto reagendo.

Il mio corpo non si muove nell’ombra contro di me, ma è il mio migliore alleato, lavora instancabilmente a mio favore per riportarmi verso la salute, e il dolore, le lesioni dei tessuti o gli altri disturbi, sono manifestazioni del fatto che la somatizzazione dei malesseri emotivi sta richiedendo notevoli opere di riparazione da parte sua.

Questa visione ci riporta dunque al centro di tutte le decisioni che riguardano la salute: stimolando l’assunzione di un ruolo attivo, porta la persona a voler capire in dettaglio cosa succede nel suo corpo, affinché possa scegliere come gestire la situazione e utilizzare i sintomi in quanto segnali che permettano di risalire all’origine del problema. E se il disturbo viene da un mio personale modo di percepire e reagire agli eventi, vuol dire che allo stesso modo avrò nelle mie mani un grande potere di intervento per riprendere a stare bene. Di conseguenza vorrò avere l’ultima parola riguardo le terapie a cui deciderò di sottopormi, dopo aver vagliato in dettaglio tutte le opzioni a mia disposizione, che avrò cercato attivamente. In questo modo cercherò di risolvere il problema non dalla posizione di vittima ma da quella di “regista”, la quale mi darà molta più forza, creando questa volta circoli virtuosi tra psiche e corpo che incrementeranno le mie possibilità di ritorno alla salute.

Mediante un ruolo più consapevole e attivo aumenteranno dunque le possibilità di attraversare anche un periodo di difficoltà come quello rappresentato dalla malattia, in modo molto più aderente a una vita in evoluzione piuttosto che a una vita lasciata “in sospeso”.

Vi invito a leggere una descrizione più ampia di questo diverso modo di vedere e gestire la malattia nell’articolo La reazione attiva di fronte alla malattia. Se vuoi sapere di più sulle modalità di gestire la reazione a seguito di una diagnosi di malattia, contattami.

Foto di Don White da Pixabay