Ho sentito a più riprese clienti che hanno ricevuto una diagnosi di cancro dolersi per il fatto che i loro terapeuti curino abitualmente la malattia ma non il malato. Dal punto di vista emozionale e di vicinanza umana si sentono profondamente soli con la loro angoscia, ma non trovano il coraggio di esprimerlo durante le visite, hanno la sensazione di rubare tempo al medico, di essere inopportuni, di chiedere la luna.
Ma cosa succederebbe se sapessero che le linee guida internazionali hanno già incorporato le loro esigenze e che stanno spingendo affinché venga rivoluzionato il concetto stesso della cura? Se sapessero che gli standard di eccellenza nell’oncologia mondiale già prevedono un modello di cura focalizzato sulle persone e in particolare sulla relazione tra medico e paziente? Forse non potrebbero cambiare dall’oggi al domani la sanità pubblica ma saprebbero che non stanno chiedendo la luna, bensì un servizio di qualità che è loro diritto ricevere, e che potrebbe fare la differenza nel loro percorso di ritorno alla salute.
In cosa consiste oggi l’”eccellenza” nella cura del paziente oncologico
L’importanza sulla risposta alla malattia dello stato psico-emozionale della persona che ha appena saputo di avere il cancro, è stata ormai ampiamente riconosciuta dalle più importanti istituzioni internazionali sulla ricerca e sulla cura delle malattie oncologiche1. È stato inoltre rilevato che circa il 25-30% dei pazienti sperimenta un rilevante distress2 o sviluppa disturbi d’ansia e depressivi a seguito di una diagnosi di cancro (Pitcealthy et al., 2014). Tutte queste ragioni hanno portato le citate istituzioni ad adottare negli ultimi anni una serie di linee guida volte a mettere al centro del modello di cura il malato oncologico e non la malattia. In tal modo, dopo più di due secoli di riduzionismo, viene sancito ufficialmente che il modello di cura più efficace è quello nel quale l’essere umano riprende a essere considerato come persona e non solo come corpo malfunzionante. E la persona porta tutto il suo mondo nel rapporto con il medico curante, ovvero la sua storia, la sua situazione economica, familiare e sociale e il modo in cui questi la vive, la sua visione della vita e della morte, l’insieme delle preoccupazioni scatenate dalla malattia e la difficoltà di trovare un nuovo equilibrio nella situazione di incertezza che segue alla comunicazione della diagnosi.
Di conseguenza, il distress2 del paziente, diventa il “sesto segno vitale”, con un’importanza pari a quella della pressione sanguigna, temperatura, frequenza cardiaca, respiro e dolore (Grassi et al., 2014). Il disagio dunque deve essere riconosciuto e trattato il prima possibile. A tal fine, il National Institute for Health and Care Excellence (NICE), organismo pubblico che fornisce le linee guida per la salute e l’assistenza sanitaria nel Regno Unito, ha elaborato un modello di valutazione psicologica e di supporto per i pazienti oncologici che vede coinvolta l’intera équipe terapeutica. In base a queste raccomandazioni, ogni operatore della salute dovrebbe essere in grado di riconoscere il distress nel paziente, di gestirne alcuni aspetti e di indirizzare la persona a un professionista del sostegno (counselor) o specialista della salute mentale (psicologo, psicoterapeuta, psichiatra), in base alla gravità e complessità del caso (NICE, 2004).
Il modello di cura centrato sul paziente
Questo passaggio epocale da un modello di cura focalizzato sulla malattia a uno focalizzato sul malato, porta prepotentemente alla ribalta obiettivi ed esigenze di due persone: il medico e il suo assistito. La loro relazione diventa uno strumento terapeutico cruciale e così ciò che le dà forma, ossia la comunicazione. Vediamo più in dettaglio le principali differenze tra i due approcci alla cura.
Tabella 1 – Approcci alla cura medica
Quel che si cerca di costruire mediante questo nuovo approccio è un percorso di fiducia, competenza e vicinanza, che, senza voler far leva su false rassicurazioni, lasci la porta aperta alla speranza. In effetti, nessuno sa, per ciascun caso, cosa succederà, per quel che dicano esperienze previe del medico e statistiche. Ogni persona è unica così come sono uniche le sue modalità di reagire al problema di salute e le sue esigenze di sentirsi accudita.
Ma qual è a oggi la situazione riguardo gli effetti della comunicazione che spesso si incontra nei reparti di oncologia? Questo che segue nella Tabella 2 è il risultato di due studi pubblicati il primo, sul British Medical Journal nel 2002, e il secondo dalla rivista Journal of Clinical Oncology nel 2007.
Tabella 2 – Risultati di studi osservazionali sulle abilità comunicative nei reparti di oncologia.
Nel modello focalizzato sul paziente, la cura della comunicazione è centrale. L’obiettivo del medico non è perciò solo quello di diagnosticare e curare la malattia ma anche quello di sondarne l’impatto sulla persona e sulla sua famiglia. A tal fine si attribuisce importanza non solo ai sintomi fisici ma anche alle emozioni, aspettative e preoccupazioni del malato. Inoltre questo modello prevede un “remare insieme” di medico e paziente, una piena trasmissione delle informazioni e condivisione delle decisioni terapeutiche. Non è più il medico che decide la terapia di fronte alla quale il paziente può soltanto acconsentire, bensì il primo informa, risponde a tutte le domande che il malato pone ed è quest’ultimo che ha l’ultima parola sul da farsi.
La competenza comunicativa
In questo nuovo approccio, diventa perciò fondamentale che i medici divengano competenti in un certo numero di capacità comunicative e interpersonali e consapevoli del fatto che sia la comunicazione verbale che quella non verbale che utilizzano nella loro attività sono l’essenza dell’arte e dell’abilità di comunicare (Bayle, 2014). Al momento esistono diversi modelli consigliati di comunicazione, come il protocollo SPIKES3 (Kaplan, 2010), che cercano di fornire ai medici nuovi strumenti per interagire al meglio con i loro assistiti.
Quelli che seguono nella Tabella 3 sono comportamenti del medico che, in base alla persona che si ha di fronte, potrebbero concretamente facilitare l’insorgere di una buona relazione.
Tabella 3. – Comportamenti medici apprezzati che possono favorire una buona comunicazione e relazione.
Crediamo che questa Tabella possa costituire un’utile mappa nei casi in cui la persona senta che durante una seduta con il medico qualcosa non abbia girato per il verso giusto e voglia capire meglio il perché. E riconoscere i nodi nella relazione con il mio medico è il primo passo per potergliene parlare e provare a trovare insieme una soluzione.
Creare una buona relazione: la responsabilità condivisa
Corpo, psiche ed emozioni si parlano attraverso la chimica del corpo. Finalmente assistiamo a un tentativo, da parte delle maggiori istituzioni sanitarie del mondo, di incorporare i risultati di più di un secolo di studi in un nuovo modello di cura che comprenda tutte queste dimensioni dell’uomo. La persona, o meglio le persone, dunque tutto lo staff medico, il malato e i suoi familiari, tornano in primo piano, con la loro percezione della realtà, le loro esigenze di supporto e assistenza, le loro difficoltà di affrontare situazioni emozionalmente impegnative e di svolgere il loro lavoro in condizioni gravose. Il paziente si riprende il permesso di esprimere ciò che sente e lo preoccupa e di spiegare come vorrebbe essere assistito. Il medico può chiedere di smettere di lavorare in condizioni di eccessivo carico di lavoro che si traducono in lesa umanità nel rapporto col paziente. Può inoltre chiedere di essere formato per assistere il malato con maggior vicinanza e di essere supportato quando viene sopraffatto da un carico emozionale o un senso di impotenza eccessivi.
La relazione tra il medico e il paziente diventa il fulcro del nuovo paradigma del “prendersi cura” e, nella sua costruzione, sia il medico che il malato hanno la responsabilità di incontrarsi innanzitutto su un piano umano. Questo li chiama in causa come persone che cercano di comunicare, di comprendersi e di venirsi incontro al di là di titoli e ruoli. Così come il medico si deve formare per poter sviluppare migliori capacità comunicative e di ascolto, il paziente non può non tener conto del fatto che il medico a volte può non potergli dedicare tutto il tempo che questi desidererebbe, in quanto oberato di lavoro. Sicuramente ci vorrà del tempo per implementare al meglio questo nuovo modello di cura, ma la direzione verso la quale incamminarsi è stata individuata.
Passi concreti
Perché ho ritenuto importante segnalare tutto questo? Per ricordare alcuni elementi fondamentali nel momento in cui dovessimo avere bisogno di assistenza sanitaria, ospedaliera o meno, come per esempio:
- che ciò che conta è la relazione che riusciamo a creare con il medico, per cui non dobbiamo dimenticare che davanti a noi non c’è una divinità dalla quale dipende la nostra vita e di fronte alla quale possiamo soltanto obbedire, ma un essere umano con glorie e miserie come noi, che cerca di aiutarci in base a quello che sa e col quale dobbiamo instaurare la migliore comunicazione possibile;
- che noi per primi dobbiamo prenderci cura di noi stessi chiedendoci di che tipo di sostegno abbiamo bisogno in uno o vari momenti del nostro percorso e attivandoci per riceverlo;
- che il tipo di sostegno di cui abbiamo probabilmente bisogno è lo stesso raccomandato dalle principali Istituzioni Oncologiche Nazionali, dunque se avanziamo richieste in tal senso, non stiamo chiedendo niente di strano, anzi, stiamo facilitando il nostro processo di ritorno alla salute.
Se desideri saperne di più o ricevere aiuto per instaurare una relazione più serena ed efficace con il tuo medico curante, contattami.
Bibliografia
Bayle W. (2014), “Comunicare con i pazienti oncologici e con i loro familiari”, in Psiconcologia, Biondi M.,Costantini A., Wise T.N. eds., Raffaello Cortina Editore, Milano.
Grassi L., Caruso R., Nanni M.G. (2014), “Psico-oncologia e standard ottimali della cura del cancro”, in Psiconcologia, Biondi M.,Costantini A., Wise T.N. eds., Raffaello Cortina Editore, Milano.
Kaplan M. (2010), “SPIKES: a framework for breaking bad news to patients with cancer”, Clin J Oncol Nurs, Aug;14(4):514-6. doi: 10.1188/10.CJON.514-516.
National Institute for Clinical Excellence (NICE) (2004), Improving supporting and palliative care for adults with cancer, disponibile su https://www.nice.org.uk/guidance/csg4.
Pitceathly C., Watson M., Cawthorn A. (2014), “Counseling e trattamenti psicologici specifici in contesti clinici comuni. Una visione d’insieme”, in Psiconcologia, Biondi M.,Costantini A., Wise T.N. eds., Raffaello Cortina Editore, Milano.
Note
1 Parliamo del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) del Regno Unito, del National Comprehensive Cancer Network (NCCN) degli Stati Uniti, dell’Institute of Medicine (IOM) del National Academy of Science, che su richiesta del National Health Institute (NHI), sempre negli USA, ha istituito un gruppo di lavoro per studiare come garantire il soddisfacimento dei bisogni psicosociali dei pazienti oncologici. In Canada la Canadian Association of Psychosocial Oncology (CAPO, www.capo.ca) nel 1999 ha pubblicato il National Standards for Psychosocial Oncology, il primo documento che definiva gli standard organizzativi mentre nel 2005 la Canadian Strategy For Cancer Control ha aggiunto il distress emozionale come sesto segno vitale, suggerendo che il monitoraggio dello stesso è un indicatore vitale dello stato d’animo del paziente, dei bisogni e del progresso nella malattia, e nel 2007 ha pubblicato la National Psychosocial Oncology Education Framework. Ulteriori passi nella stessa direzione sono stati fatti anche in Australia, Israele e Giappone.
In Europa, la risoluzione del Parlamento Europeo del 10 aprile 2008, al punto 21 recitava “21. (Il Parlamento Europeo) invita gli Stati membri a far sì che, a livello nazionale, siano previste equipe oncologiche multidisciplinari incaricate di garantire un trattamento individuale ottimale per tutti i pazienti e migliorare la formazione degli oncologi e dei professionisti della sanità, riconoscendo le esigenze psicosociali dei pazienti al fine di migliorare la loro qualità di vita e di ridurre nei malati gli stati d’ansia e di depressione”.
Successivamente, la risoluzione del Consiglio Europeo del 10 di giugno dello stesso anno rinforzava le indicazioni del Parlamento Europeo, sottolineando al punto 11 della stessa che “il trattamento del cancro è di tipo multidisciplinare, coinvolgendo la cooperazione della chirurgia oncologica, dell’oncologia medica, radioterapia, chemioterapia così come il supporto e la riabilitazione psicosociale e, nel caso in cui il cancro non possa essere trattato, delle cure palliative. I servizi di cura prestati al paziente e alla sua famiglia devono essere coordinati in modo efficace”. Successivamente, al punto 19 invita gli Stati Membri a mettere in atto un tipo di cura multidisciplinare che tenga in conto il soddisfacimento dei bisogni psicosociali della persona e della sua famiglia.
Attualmente i National Cancer Plan degli Stati Membri non sono però omogenei nell’incorporare le linee guida psicosociali o nel promuovere l’applicazione di routine delle cure psicosociali in ambito oncologico. In Italia, il Ministero della Salute ha riconosciuto nei documenti ufficiali la necessità di cure psicosociali dei pazienti oncologici e il fatto che ciascun paziente dovrebbe essere seguito da un’équipe multidisciplinare, ma il processo di attuazione, definito dall’Intesa Stato-Regioni del 30 ottobre 2014 mediante l’approvazione della “Guida per la costituzione delle reti oncologiche regionali”, è ancora in corso.
2 Ovvero uno stress negativo dato dalle difficoltà di adattamento alla situazione di malattia.
3 Si tratta di un modello elaborato tenendo in conto il modo in cui i pazienti vorrebbero che gli venissero comunicate le cattive notizie in caso di patologia oncologica.