Alla radice della guarigione. La speranza

Speranza

Nessun seme di guarigione può germogliare con successo  se non si radica nel terreno fertile della speranza. Dentro alla parola speranza c’è innanzitutto un desiderio, il desiderio che una situazione che consideriamo ideale possa realizzarsi per il solo fatto che lo vogliamo, con tutte le nostre forze. È una spinta vitale che riguarda tutti. Può trattarsi per esempio di voler trovare una casa più grande, un lavoro più interessante o remunerativo, un grande amore, tempo per coltivare le proprie passioni.

Oppure, speriamo di tornare a stare bene, se oggi stiamo affrontando un problema di salute. Desideriamo un futuro migliore del nostro presente e restiamo aperti e recettivi al fatto che potrà realizzarsi, senza un perché, senza una logica, nonostante possa sembrare che tutto remi contro. La speranza appartiene al regno del cuore, non a quello della logica, è una necessità intimamente legata al nostro istinto di sopravvivenza, esiste e guida i nostri passi indipendentemente dalle possibilità che i nostri desideri si materializzino. Nell’essere umano si tratta di un motore così potente che riesce ad andare oltre la vita terrena: se non posso più sperare di guarire, posso ancora sperare di vivere una nuova esperienza in un’altra dimensione nella quale sperimenterò sensazioni meravigliose, di espansione, amore e accoglienza (Simonton, 1978; LeShan, 1994).

La capacità di continuare a credere nei nostri sogni cammina mano nella mano con la fiducia di possedere le risorse esterne o interiori necessarie per fare passi concreti verso il nostro desiderio, e di avere intorno persone competenti e amorevoli che potranno sostenerci da ogni punto di vista. La fiducia permette di trasformare il sogno in azione, il “cosa” in “come”, stimola le aspettative positive sugli esiti delle nostre scelte, e tutto questo, a sua volta, alimenta la speranza (Kaspar, 2018). Si tratta di un circolo virtuoso che aumenta la possibilità che i nostri sogni si realizzino, per quali che siano. 

La speranza di guarire

Quando parliamo di salute, la speranza diventa un fattore di fondamentale importanza, perché sentiamo che in gioco c’è la nostra stessa sopravvivenza. Chi ha ricevuto una diagnosi che lo fa preoccupare desidera una cosa sola: guarire o quanto meno poter mantenere il problema sotto controllo, continuando a godere di una buona qualità di vita ancora per molti anni.

Il fatto di poter credere che il brutto momento che stiamo attraversando sia passeggero e che presto staremo di nuovo meglio, è potenziato dal fatto di aver fiducia nelle capacità di autoguarigione del nostro corpo: in questo momento si è probabilmente rotto un equilibrio, ma sappiamo che il nostro organismo è al lavoro per trovarne uno nuovo che, come è insito nella saggezza della natura, ha l’obiettivo di preservare la vita. Il senso di fiducia, e dunque la speranza, si rafforzano se sentiamo di essere accompagnati da medici e altri professionisti della salute non solo competenti, ma anche capaci di accogliere le nostre perplessità e preoccupazioni, e che percepiamo davvero impegnati a fare il massimo per noi. Se sentiamo di essere in buone mani, anche le nostre aspettative sui risultati delle terapie saranno migliori e questo ci permetterà di rilassarci ulteriormente e di orientare il nostro organismo verso la guarigione.

Il prof. Fabrizio Benedetti1, nel suo ultimo libro La speranza è un farmaco (Mondadori, 2018), sottolinea che i medici hanno un ruolo fondamentale nel mantenere alta la speranza del paziente, sia nel momento in cui comunicano la diagnosi, sia in tutto il percorso terapeutico, dall’iniziale proposta di cure, e successivamente, a ogni somministrazione del farmaco. La speranza ha bisogno di essere nutrita costantemente durante una malattia e le parole o gli atteggiamenti che essi usano possono creare il terreno favorevole alla guarigione e a una buona qualità di vita, oppure posso produrre un effetto contrario. I malati e i loro familiari sono estremamente sensibili sia a ciò che il medico curante dice ma anche a come lo dice, alle sue esitazioni, a eventuali contraddizioni, a ogni espressione del suo viso, ogni movenza. Sempre il prof. Benedetti ci ricorda che «Una delle cause più comuni dell’assenza di speranza è proprio la scarsa comunicazione e la poca empatia del personale medico» (Benedetti, 2018, p. 88). Aspettative negative riguardo il futuro clinico del proprio assistito, possono creare nel paziente situazioni psicologiche ed emotive così gravi da compromettere l’intero percorso terapeutico. «Dunque, sopperire alla mancanza di speranza è compito e dovere del personale sanitario, e dovrebbe costituire parte integrante delle cure mediche. L’empatia e la compassione sono basilari, e infondere fiducia e speranza dipende proprio da questi due comportamenti» (Benedetti, 2018, p. 86). Questo non vuol certo dire che sia adeguato fornire al paziente un falso quadro della situazione, ma pur nell’evidenza della situazione clinica, è sempre possibile scegliere parole che lascino sempre aperta la porta alla speranza. D’altra parte, i fenomeni delle remissioni spontanee, ci mostrano che anche nei casi di malattia più avanzati può succedere ciò che nessun medico si aspetta. Approfondiremo le conseguenze fisiologiche della speranza nell’articolo Effetto placebo e biologia delle aspettative positive.

Se vuoi saperne di più o se vuoi rafforzare la capacità di sperare e aprirti al possibile, contattami.


Bibliografia

Benedetti F. (2012), L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo, Carrocci Editore, Roma.

Benedetti F. (2018), La speranza è un farmaco, Mondadori Libri S.p.A., Milano.

Kaspar, C. (2018), Il metodo Simonton anticancro, Feltrinelli Editore, Milano

Simonton C., Matthews-Simonton S., Creighton J. L. (1978), Getting well again, Bantam Books, New York, (trad. it. Ritorno alla salute, Edizioni Amrita, Torino, 2005).

Simonton O.C., Henson R. (2016), L’avventura della guarigione, Amrita, Torino.

LeShan L. (1994), Cancer as a turning point, Penguin Group, New York

Note

1 Il prof. Fabrizio Benedetti è professore di Fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino. È uno dei massimi esperti mondiali di effetto placebo.